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10 cose che ho imparato dalla prigionia

Riassunto delle puntate precedenti: il 25 dicembre, al rientro del pranzo meglio noto come ‘pranzo di Natale’, sfilandomi la gonna rossa con qualche glitter, per dare un senso al Natale del pranzo di cui sopra, tac, dolore lancinante, così forte mai provato. E paralisi. Impossibilità di muovere non dico un piede ma neanche l’alluce.

Con gonna e collant sfilati da un figlio di cinque anni e cerotti sulla schiena (noti anche come tape) divelti a morsi (lo so, è impossibile, ma è per dare un tono di pathos alla scena), non so come ho raggiunto il letto. E lì sono rimasta. Abbastanza a lungo da imparare che:

1) nella tua vita deve esserci qualcuno che sappia fare punture. Dalla vicina di casa di tua madre a un suocero medico, a scelta, per evitare il pronto soccorso (che il giorno di Natale insomma non lo si augura a nessuno).

2) avere un amico parente conoscente medico che abbia un amico parente conoscente ortopedico. Non risolutivo, ma efficace per terapia d’urto. Che poi scopri essere stata un po’ troppo d’urto con un miorilassante della famiglia del Valium, finisce con pazam e ha un effetto droga stordente non indifferente. Della serie ho vuoti di memoria di tre giorni. Trovo messaggi scritti che non ricordo di aver scritto. Probabilmente ci sono anche conversazioni telefoniche di mezzo. E commenti su Fb. Chi mi ha sentito tra il 26 e il 29 dicembre sappia che non ne ho memoria.

3) come non ho memoria del momento in cui il marito mi ha proposto la Tecar, ho il numero de terapista nella chat di whatsapp, ma non so neanche se l’ho chiamato io. Sta di fatto che grazie al terapista e questa Tecar io sono in piedi dal 28. Poco. Ma senza quei dolori lancinanti che avete presente il travaglio? Ecco, di più (vivo nel terrore, dicono che passa). Nota: per Tecar si intende onde radio che vanno a sfiammare direttamente il muscolo. Un giorno andrò anche su Google, per ora preferisco semplicemente dire miracoloso.

4) se ti senti meglio non sei guarito. Tipico mio, ma credo di chiunque. Primo giorno di ‘ehi, sto guarendo’ esco. Primo giorno di ricaduta. Ma di nuovo in piedi, il 9 gennaio è stato il giorno in cui ci ho riprovato davvero. Ed è andata bene (cioè a pezzi, ma non più quei dolori là).

5) l’immobilità forzata non è vacanza. Ovvero io sono una persona alquanto immobile. Il mio ideale di vacanza è letto e telefilm. Bene. Ho capito che devo poterlo scegliere. Volevo solo uscire, portare i miei bimbi a vedere cose, anzi prendere aria. Non ho goduto di letto e telefilm (ma ho goduto di letto e primogenita al mio fianco innamorata pazza di Full house su Netflix, che io guardavo più o meno alla sua età. Siamo alla quarta stagione. Ha detto che poi la ricominciamo. Allora io ho detto ok, ma in inglese. Ci si prova come si può a far didattica sempre e comunque. In realtà poi ha scoperto che Le amiche di mamma, sempre su Netflix, è il seguito, e quindi guarderemo quello).

6) A non fare niente si scopre che si può non fare niente. E questo vale più per i miei figli che per me. Siete tutti iperattivi (io pure). Essere immobili e chiusi in casa durante le vacanze vuol dire odiare i social, non volere guardare i social, farsi deprimere dai social, e vedere solo foto di gente, nell’ordine: sulla neve, al mare, in America, alle Maldive, in Spagna, in giro. Nessuno a casa mai? Davvero? Che poi noi non partiamo mai lo stesso, per altri motivi, ma diciamo che se posso vivere all’aria aperta pesa di meno. Ma i miei figli che non hanno i social e questa depressione quindi non l’hanno subita, hanno smesso di chiedere cosa facciamo oggi, vivendo il ‘niente’ come inizio di normalità. Giocando di più, annoiandosi, litigando tanto, ma evitando di voler uscire fare vedere gli amici, andare a pattinare, andare al cinema e via così. NIENTE.

7) i social sono il male (repetita iuvant, i motivi sono sopra)

8) i figli odiano vedere la mamma malata. C’è chi reagisce rifiutando completamente la difficoltà (maschio, 5 anni) saltando e urlando come fosse tutto normale e chiedendo poi di andare dai nonni, rendendosi conto che anche a far finta che sia tutto normale poi tanto normale non è. Chi diventando la piccola infermiera inseparabile (femmina, 8 anni) vivendo accanto alla madre quasi con morbosità. Evitando uscite pur di non mollare il capezzale (vuoi andare al cinema con la nonna a vedere coco? No). In nessuna delle due modalità c’è felicità.

9) volevo vedere: coco, wonder, Star Wars. Non ho visto nulla. Sono sopravvissuta.

10) Stare bene è l’unico obiettivo, sempre. Non serve star lì a fare grandi ragionamenti filosofici. Stare bene. Punto.

Piano piano. Senza fretta. E no, non mi sento di aver capito massime della vita o speso il tempo rallentato bene, in approfondimenti riflessioni cose belle. Sono ancora tanto tanto incazzata per questi giorni di prigionia. Ho pianto oceani. Penso che con i soldi che sto spendendo (e spenderò) di terapia potevo fare tre vacanze. E che devo ancora pagare l’osteopata che mi ha portato a quel punto lì. E non sorrido ancora, ma inizio a tirar su gli angoli delle labbra. Perché dicono che starò bene. Che non ho ernie. Che piano piano. E che per Sanremo sarò a posto.

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